INVITO
ALLA MOSTRA DEDICATA A
BENEDETTO TOZZI
(1910 - 1968)
DOMENICA 3 LUGLIO 2016 - ORE 11:30
MUSEO D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
- 03 LUGLIO - 14 AGOSTO 2016 -
CIVICO MUSEO D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA - PIAZZA SANTA VITTORIA, 2 -
ANTICOLI CORRADO
(RM)

Ritratto di
Marcellina Graziani, detta Nina 1938
Dal 3 luglio al 14 agosto 2016
A cura di Manuel Carrera
Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea
Piazza Santa Vittoria, 2
00022 Anticoli Corrado (Roma)
www.museoanticoli.it
Inaugurazione: 3 luglio 2016 ore 11:30
La mostra intende omaggiare e riscoprire la figura di Benedetto Tozzi (Subiaco
1910 – 1968), alla luce di un rinnovato interesse verso la pittura tra le due
guerre e, in particolare, quella relativa alla cosiddetta “Scuola romana”. La
mostra al Museo di Anticoli Corrado propone una selezione di opere che documenta
l’evoluzione artistica di Benedetto Tozzi, dal tonalismo venato di malinconia
dei primi anni Trenta all’espressionismo drammatico instillato dalle esperienze
belliche vissute sulla propria pelle, anche attraverso un confronto con alcuni
dei protagonisti della pittura del suo tempo.
I
moti dell’anima artistica di Benedetto Tozzi svelano un forte legame con la
propria terra, dalla quale colse gli aspetti più intimi legati alla liricità del
paesaggio impervio solcato dal fiume Aniene e la sua Valle: una connessione
profonda con Subiaco e le sue memorie storiche, fonti d'ispirazione ma anche di
acuta sofferenza di fronte alle lacerazioni che la guerra inflisse alla sua
città.
Lungo la Valle dell’Aniene, una costellazione di piccoli centri diede ospitalità
ai tanti artisti italiani e stranieri che dall’Ottocento in poi si dispersero
nelle piccole comunità vallive: Cervara, Saracinesco, Cineto, ma soprattutto
Anticoli Corrado. Proprio Anticoli Corrado rappresentò per Benedetto Tozzi il
cenacolo artistico più congeniale alla sua personalità: un affollato atelier dove
operavano personalità di primo piano, quali Fausto Pirandello, Attilio Selva,
Pietro Gaudenzi, Emanuele Cavalli, Giuseppe Capogrossi e molti altri, in grado
di offrire occasioni di confronto e dibattito sui temi della ricerca espressiva,
nonché sul difficile clima politico di quegli anni. Vi erano poi gli amici
anticolani: Sergio Selva, Enrico Gaudenzi, i fratelli Toppi (Mario, Carlo e
Margherita), con i quali Tozzi instaurò una frequentazione fraterna che durò
tutta la vita. Ancora oggi perdura il ricordo dei tanti momenti nei quali la
creatività artistica si confondeva con gli aspetti più bohemiendella vita
quotidiana in questo singolare cenacolo, nel quale feste e baccanali avevano il
sapore di un preludio liberatorio ai tragici eventi della seconda guerra
mondiale. Alcune opere di questi pittori saranno esposte in mostra per offrire
una panoramica del dialogo che intercorreva tra loro e il pittore sublacense.
Il catalogo della mostra sarà corredato di ricerche inedite e approfondite,
frutto della collaborazione che in questa occasione il Museo inaugura con la
Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici dell’Università “Sapienza”
di Roma.

Invito
alla mostra - "Omaggio a Benedetto Tozzi" 3 luglio 2016
Museo d'Arte Moderna Contemporanea

Foto - Museo d'Arte Moderna Contemporanea
Piazza della Vittoria
Anticoli C.
BELFAGOR
Rassegna di varia umanità diretta da Luigi Russo
Università di Pisa
Anno I, N. 5 - del 30 settembre 1956
“La critica d'Arte non si è ancora occupata degnamente del pittore di Subiaco,
troppo impigliata nei meandri dell'astrattismo e nella prefigurazione di un
linguaggio eccessivamente deformante. Il Tozzi, dal canto suo, non favorisce il
suo inserimento nella vita artistica nazionale, per riservatezza di carattere e
pudore per la sua arte; non si capisce, però, come le giurie per l'accettazione
di opere e per l'assegnazione di premi non notino i quadri del sublacense,
umiliando così un artista, senza preoccuparsi dei riflessi deleteri che simile
comportamento può apportare allo spirito e all'attività di un uomo. A nostro
avviso, la sua poca fortuna presso i critici e la sua esclusione dalla rotazione
dei premi si devono alla mancanza di appariscenza e di esasperazione di errori
formali (parliamo di appariscenza e di esasperazione poiché il linguaggio del
Tozzi non è davvero ortodosso), all'assenza di intellettualismi, alla repulsa
delle scacchiere geometriche, perché sembrano questi gli aspetti che la critica
esalta come portato della nostra sensibilità "moderna". La coerenza stilistica
e l'attaccamento alla natura costano all'artista un vero e proprio ostracismo
dall'onesto riconoscimento e dal diritto alla vita.
Il Tozzi sostiene, e non saremo certamente noi a dargli torto, che non c'è
bisogno di allungare le teste a pera, di mettere un occhio solo, di aggrappolare
in un fianco gli attributi femminili, di scheletrire e rendere goffa o
spezzettare la figura umana di ragnificare gli alberi, portare le montagne in
primo piano, legnificare il mare. fare triangoli o losanghe, illividire pestare
i colori, per essere moderni.
L'arte
quando è veramente arte, è sempre moderna e non ha bisogno di esteriorità alla
moda. A questa convinzione egli ha improntato la sua opera. (……..)
Benedetto Tozzi ha l'incredibile potere di accordare, sia pure drammaticamente,
le esasperanti e "visibilissime" colorazioni alle visioni fantastiche: Ne viene
fuori una pittura densa, eccitante, allucinante se si vuole, ma che realizza,
con disinvoltura e suggestione prepotenza, ogni arditezza di soggetto. Il
Tozzi è senza dubbio uno dei maggiori coloristi del nostro tempo: i suoi non
sono colori fumosi, bituminosi, sporchi, come troppo spesso se ne vedono; sono
terzi e vibranti anche nell'impasto serrato, quasi accesi da un'intima purezza;
quella stessa che spiritualizza la luce”.
Guido Colonna

autoritratto 1943
CATALOGO MOSTRA
ALLA SCOPERTA DELLE OPERE DI BENEDETTO TOZZI (1910 - 1968)
DALLA PITTURA TONALE ALLA VISIONE ESPRESSIONISTA

Catalogo Mostra 2016
a cura di
Manuel Carrera
Direttore del Civico Museo d'Arte Moderna
OPERE ESPOSTE |
SCHEDE
DESCRITTIVE |
 |
"L’ANIENE", 1935 ca.
Esposto alla retrospettiva del 1969 a Subiaco, il dipinto appartiene al
periodo tonale della pittura di Tozzi, caratteristico della metà degli anni
Trenta.
Il pittore si dimostra aggiornato alle più moderne istanze che muovono la
pittura della Capitale a partire dalla fine degli anni Venti; il dipinto ha
in sé gli intenti dichiarati nel 1933 all’interno del Manifesto del
primordialismo plastico firmato da Cavalli, Capogrossi e Melli: «Pittura è
rapporto di colore che suscita l’architettura del dipinto […] dal colore si
deve trarre tutto, ma il risultato non è colore: è un fatto vivente».
Tozzi ha
sicuramente modo di conoscere Cavalli e Capogrossi, i quali nel 1935 sono
entrambi ad Anticoli Corrado; quest'opera dimostra come assimili gli intenti
da loro promossi, caratterizzandoli attraverso una pennellata liquida e
ricca di materia, che negli anni si rivelerà come una delle sue personali
cifre stilistiche.
L’Aniene ricorre spesso nei suoi dipinti, rivelandosi soggetto ideale per la
riflessione di Tozzi sulla materia pittorica. Prova ne sono i numerosi
dipinti aventi per soggetto l’affluente del Tevere, realizzati in un arco
temporale che va dai primi anni Trenta ai Quaranta inoltrati.
Testo di Vincenzo Stanziola
|
 |
"PONTE DI SANT'ANTONIO", 1935
L’opera in esame si annovera tra le prime formulazioni di un tema
ricorrente nella produzione di Benedetto Tozzi: scorci e vedute della città
natale, scelti per il forte legame affettivo con la sua terra. A sinistra è
rappresentata l’antica cartiera di Subiaco, osservata da piazza sant’Andrea
e costeggiata dal fiume Aniene, attraversato a sua volta dal ponte di sant’Antonio,
che suggerisce il titolo del dipinto. Nella costruzione dell’opera,
l’elemento architettonico e quello naturale sono trattati con estrema
sintesi: si notino gli edifici sulla sinistra, descritti da linee rette e
forme geometriche, campite da corpose pennellate sui toni dell’ocra e del
rosso. Tale geometrizzazione delle forme risente della ricerca avviata da
Cézanne e rielaborata dai pittori italiani nel primo Novecento.
La datazione
dell’opera risulta particolarmente significativa: nel 1935, infatti, Cavalli
si trasferì nel vicino borgo di Anticoli Corrado, ospitando per diversi mesi
Capogrossi. I due pittori a quella data sperimentavano una pittura tonale,
di probabile ispirazione al colorismo di Tozzi. Gli accordi che si ritrovano
nei suoi paesaggi giovanili tradiscono lo sguardo affettivo con cui
l’artista ritraeva la sua terra: una serenità che nell’arco di dieci anni,
con la terribile esperienza della seconda guerra mondiale, finì per perdere
definitivamente.
Testo di Jessica Planamente
|
 |
"SEDIA GIALLA" (1936)
Nel repertorio giovanile di Tozzi rientra la Sedia gialla. Sono gli anni in
cui Benedetto frequenta gli artisti del cenacolo di Anticoli Corrado, in un
clima di «ritorno alla natura» e ad un'arte realistica, ispirata alla quiete
di quei luoghi e paesaggi che si contrappongono alla vita convulsa della
città e all'arte di regime. Qui sperimenta la pittura tonale con la
vicinanza di Capogrossi e Cavalli, ma il debito più forte, soprattutto per
il tema della natura morta, sembra essere quello con Mafai. La Sedia gialla
è inserita in un'atmosfera sospesa avvolta da un sentimento di abbandono e
solitudine che il critico Colonna definisce «Tristezza di gialli»,
L'iconografia, suggerita al pittore probabilmente dalle celebri sedie post
impressioniste di Van Gogh, simboleggia la malinconia che segue l'assenza,
accentuata dalla presenza degli oggetti: un libro chiuso e un lume spento,
posti al di sopra di un tessuto la cui
luminosità risalta
nel contrasto col vivace panno rosa.
Testo di Marta Moi
|
 |
"SEDIA CON FIORI" (1943)
Nella sedia databile attorno al 1943 si ravvisa il passaggio dalla monotonia
degli oggetti alla vitalità dei fiori, uno dei temi prediletti dall'artista
che svilupperà e trasformerà nel corso della sua attività. Il confronto tra
queste due opere può riassumere il carattere dell'artista per certi versi
ambivalente: estroverso da un lato e incline alla malinconia dall'altro. La
gamma cromatica aumenta, le campiture si accendono dall'interno e la
pennellata si fa
veloce e carica di
materia.
Testo di Marta Moi
|
 |
"ANTICOLANA" (1938)
L’Anticolana è una prova ad affresco eseguita da Benedetto Tozzi intorno al
1938. L’opera va infatti messa in relazione con il perduto ciclo di
affreschi del Castello dei Cavalieri di Rodi, al quale Tozzi lavorò proprio
durante quell’anno come aiutante di Pietro Gaudenzi.Nel dipinto l’artista
rappresenta una giovane contadina che con aria malinconica e austera si
staglia su un fondo monocromo. Nella figura è possibile individuare una
citazione della contadina della scena de La Mola di Anticoli, affrescata da
Gaudenzi sulla parete Sud della stanza del pane del Castello di Rodi. Poiché
nel carteggio di Gaudenzi con Cesare Maria De Vecchi – governatore delle
Isole dell’Egeo e committente dell’opera – non si fa riferimento ad
interventi specifici di Tozzi nella decorazione delle sale, è difficile
pensare che l’Anticolana possa essere uno studio preparatorio per l’affresco
rodense. È più probabile che Tozzi, dopo aver seguito da vicino il lavoro di
Gaudenzi, abbia deciso nella sua prova ad affresco di ritornare sulla stessa
figura di contadina, conservandone l’atteggiamento di religiosa attesa con
le braccia conserte e lo sguardo basso.
L’interesse
dell’artista sublacense per la tecnica ad affresco trova riscontro nel
fervente dibattito sulle tecniche artistiche che animava l’Italia negli anni
Trenta. Realizzata in anni caratterizzati da riflessioni sui materiali e i
procedimenti esecutivi, l’Anticolana di Tozzi rappresenta uno studio
importante per i futuri interventi di restauro che l’artista avrebbe
condotto a partire dagli anni Quaranta sugli affreschi di alcune chiese
romane e sublacensi.
Testo di Laura Marino
|
 |
"RITRATTO DI NINA GRAZIANI" (1938)
Il quadro ritrae Marcellina Graziani, detta Nina (Affile 1853 – 1943),
sorella minore del dottor Filippo (Affile 1842 – 1904), medico condotto e
padre di Rodolfo Graziani (Filettino 1882 – Roma 1955). Il ritratto
testimonia dell'amicizia tra le famiglie Tozzi e Graziani, probabilmente
originata da rapporti di buon vicinato – entrambe le famiglie possedettero
fondi limitrofi sugli Altipiani di Arcinazzo – e suggellata dall'amicizia
tra il padre del pittore, Nazareno Tozzi, e Filippo Graziani, entrambi
allievi al Seminario di Subiaco.Dal punto di vista pittorico è eloquente lo
spirito «rappel à l'ordre»: i colori compongono armonie senza dissonanze. Si
ravvisa l’influenza di Cavalli e di Capogrossi, filtrata dalla poetica
neoquattrocentista passata attraverso la conoscenza degli artisti di «Valori
Plastici», e dalla lezione di Pietro Gaudenzi, con il quale l’artista –
proprio nel 1938 – collaborava per la realizzazione degli affreschi nel
Castello dei Cavalieri a Rodi.La donna è ritratta in posizione seduta, con
attributi fisici e psicologici che nobilitano la sua vecchiaia: gli occhi
bassi, le rughe del viso e delle mani restituite da un insistito realismo, i
capelli quasi del tutto bianchi, raccolti in due masse ordinate e compatte,
le labbra tenute chiuse; l'abito scuro (com’era l'uso paesano per la
vedovanza), che la fascia come il paludamento di una veste antica; i sobri
monili: gli orecchini d’oro, la collana di corallo rosso indossata per il
buon augurio. La seggiola su cui Nina siede diventa una sorta di rustico
trono a braccioli. La figura regge nella sua mano destra un cestino di
terracotta cavo: si tratta di uno scaldino a carbone che rievoca l'inverno,
il momento in cui la Graziani ha posato per il ritratto; e l'altra mano è
tenuta poco discosta, sul tavolo ricoperto da una ruvida tela tessuta al
telaio da lei stessa. Dietro la sedia, due spoglie pareti rosa e un’apertura
da cui si scorgono semplici campiture di colori: è la casa di Arcinazzo, in
cui Graziani si ritirò nel 1938 e che
alternerà da allora
alla residenza di Affile. Nina Graziani è ritratta con gli emblemi della sua
condizione di donna, testimone dei valori della sua gente; e ancora, allude
al valore del lavoro. Tozzi qui ricerca un'assoluta semplicità, priva di
intellettualismo: è lo scampolo del duro mondo che il pittore rappresenta
intorno a Nina Graziani, «fissa in assorta ieraticità».
Testo di Andrea Iezzi
|
 |
"FIORI APPASSITI" - 1943
Un vaso
di anemoni e narcisi davanti ad una finestra dai vetri scuri è il soggetto
di Fiori del 1943: un anno che segna profondamente la vita del pittore,
chiamato al fronte in Francia. Nel 1942 Tozzi ha avuto occasione di
realizzare due tele di analogo soggetto per il «Premio Verona», ma questa
opera rientra in una produzione più intima e personale: colori stridenti,
bagliori allucinati, contrasti drammatici danno corpo ad una superficie
materica, tormentata. L'artista sembra avvicinarsi a Mario Mafai, con cui
aveva stretto rapporti di amicizia durante il soggiorno romano: esponente
della Scuola romana e pittore della «non ufficialità», Mafai, tornato a Roma
proprio nel 1943, trasferisce nei fiori di questi anni la sua carica
espressiva attraverso accensioni cromatiche e pennellate sinuose lontane dal
nitore del periodo tonalista.
Testo di
Patrizia Giamminuti
|
 |
"FIORI ALLO SPECCHIO" - 1943
Opera realizzata in Francia, che permette un confronto stringente con
l'Autoritratto del 1942 (coll. privata), insieme al quale sarebbe stato
ritrovato nello studio del pittore dopo la sua morte. Le due opere,
accomunate da forti contrasti dovuti all'accostamento di colori
complementari e da una superficie materica e incisa, diventano ritratto
dell'artista che vi esprime il proprio tormento per gli orrori della guerra.
Testo di Patrizia Giamminuti
|
 |
"PEPPETTA" (1944)
Il dipinto ritrae Giuseppina Scarpellini, figlia minore di
Alberto, che nel 1944 collaborò insieme a Tozzi con il movimento partigiano
sublacense. Gli Scarpellini occupavano un posto rilevante nella vita
culturale e politica di Subiaco ˗ nel dopoguerra Alberto ne fu sindaco, come
il padre Attilio prima di lui ˗ ed erano legati da vincoli di parentela a
Rosina Ciaffi, moglie del pittore. Giuseppina, nata nel 1928, dimostra
almeno 16 anni, un’età che non si accorda con la data 1937, forse apposta
dopo la realizzazione del dipinto. Questa va piuttosto collocata alla metà
degli anni Quaranta, in prossimità del ritratto della sorella Giovanna (v.
scheda successiva), cui il dipinto si apparenta per l’impostazione
malinconica del soggetto e alcuni particolari compositivi come le lunghe
braccia; se ne discosta invece per la stesura pittorica e la gamma
cromatica: mentre Giovanna è perfettamente coerente con la produzione di
quegli anni, Peppetta, esposto per la prima volta nel centenario della
nascita del pittore, avrebbe certo fatto da protagonista alla mostra
«Benedetto Tozzi e la Scuola romana», pensata dalla Soprintendenza
dell’Abruzzo nel 1989 e rimasta sulla carta. È manifesta l’eco della pittura
tonale di Cavalli, Cagli e Capogrossi, che Tozzi recepì durante le
frequentazioni anticolane e il breve trasferimento a Roma. Si noti in tal
senso la gamma cromatica tenue (giocata sui rosa, il beige, un bianco
pannoso e l’ocra) che esercita quasi una forza maieutica nei confronti della
figurazione ed esautora il disegno del suo ruolo primario.
Testo di Vittoria Brunetti
|
 |
"RITRATTO DI GIOVANNA SCARPELLINI", 1944 ca.
Il dipinto
rappresenta il ritratto a figura intera della giovane Giovanna Scarpellini,
una delle due figlie del generale Alberto Scarpellini, personaggio di
rilievo della città di Subiaco con cui il pittore era legato da una profonda
amicizia (cfr. scheda precedente). L’opera, tanto nella resa dei volumi
quanto nel colore, rivela la reminescenza della poetica del Novecento
avanguardista, unita alla riscoperta della grande tradizione figurativa del
passato. Tuttavia, la ricerca coloristica – soprattutto nella resa della
camicia e dello sfondo – è con ogni evidenza figlia dell’interesse di Tozzi
per la pittura fauve, filtrata dall’interpretazione che ne avevano fatto i
pittori italiani verso la metà del Novecento. Sono infatti questi gli anni
in cui, soprattutto nell’uso del colore, l’artista sublacense subisce
l’influenza delle sperimentazioni cromatiche della pittura drammatica di
Mafai e Scipione: nella fase più buia della guerra, che toccherà
profondamente l’animo e la psiche dell’artista, Tozzi sembra inasprire la
sua sensibilità di pittore e la forma stessa delle sue opere.
L’atteggiamento pensoso di Giovanna Scarpellini, l’assenza di riferimenti
all’ambiente circostante, piuttosto vuoto e dismesso, caratterizzato da una
certa atmosfera di sospeso, stupore e mistero sono tipici dei ritratti degli
anni Quaranta, in cui la figurazione diventa pretesto per indagare la sua
stessa tormentata interiorità.
Testo di Ianira Forte
|
 |
"RITRATTO DI
SERGIO" - 1947
In
questo dipinto del 1947 è rappresentato il secondogenito dell’artista,
Sergio, all’età di sette anni. Nell’impostazione della figura, posta di tre
quarti, con le mani sommessamente raccolte in grembo, lo sguardo malinconico
e assorto che dialoga silenziosamente con lo spettatore, ritroviamo ancora
alcuni motivi della poetica di «Novecento», di cui Tozzi in parte subisce
l’influenza soprattutto nei suoi ritratti, pur rinnegandone gli aspetti più
magniloquenti e celebrativi. Il bambino si trova all’interno dello studio
dell’artista, seduto sul bordo di un tavolo dove si vedono distribuiti
alcuni oggetti. È una dimensione domestica quella rappresentata in primo
piano, ma l’ambiente risulta quasi indefinito: nei ritratti di Tozzi i
personaggi abitano uno spazio che è appena accennato, di cui si intravedono
solo alcuni dettagli che contribuiscono a determinare una sottile atmosfera
di mistero. Ma a tradire una diversa finalità dell’opera è l’uso del colore,
qui steso a larghe campiture, quasi alla maniera dei fauves, che denota
l’interesse sempre vivo verso un’indagine che è prima di tutto coloristica.
L’artista sa approfittare della conformazione dello studio con lucernario
per dar vita ad un suggestivo contrasto luce-ombra tra il primo piano e lo
sfondo, che si carica di valenze simboliche: divenendo meno comprensibile,
costellato di macchie di colore più cupo, esso assurge a metafora del suo
stato d’animo, ribollente nel profondo di inquietudini mai sopite. Il volto
di Sergio diviene dunque specchio dell’interiorità dell’artista stesso, ed
il colore si fa così più simile alla tavolozza tormentata di Mafai e
Scipione, per quell’evoluzione che si ha nell’arte del Tozzi nell’immediato
dopoguerra, quando la sua psiche risulterà ferita e sconvolta dagli orrori
del conflitto e dall’aver ritrovato Subiaco distrutta con il suo studio di
Palazzo Romano saccheggiato.
Testo di Serena Pettinato
|
 |
"LE MACERIE" - 1948
L’opera
appartiene a un ciclo di dieci dipinti che documentano Subiaco dopo i
bombardamenti che la devastarono tra il maggio e il giugno del 1944. È
rappresentata la zona intorno a via Fabio Filzi, a pochi passi dalla
cartiera. La presenza di un cartellino e di alcuni numeri identificativi sul
retro fanno supporre sia stata esposta almeno due volte.
Il dipinto sembra il risultato di una dolorosa presa di coscienza del
pittore, espressa attraverso una pittura materica fatta di toni bassi e
colori terragni. I tocchi di bianco guidano l’occhio lungo i muri del
palazzo sventrato sulla destra, il cui scheletro imponente può aver
esercitato, come emerge da altri quadri del ciclo, una sorta di fascinazione
sul pittore. I colori e i toni sono tanto distanti dalle fantasie
coloristiche dei paesaggi sublacensi degli anni Trenta quanto dalle ultime
opere della serie, dove il dramma è ormai elaborato e i colori sono più
chiari e diluiti. Il tema accomuna la serie alle celebri Demolizioni di
Mafai che, pur costituendo un amaro memento degli sventramenti fascisti,
avevano ragioni eminentemente stilistiche: enucleare forme e volumi
attraverso il colore. Più cupa e personale è l’interpretazione di Tozzi,
assai vicina cromaticamente alle «deflagrazioni tonali» delle Demolizioni di
Afro (1939) e sentimentalmente alle Rovine di guerra di Turcato (1948-52),
che risolve invece in una composizione astratta il ricordo doloroso della
sua visita a Varsavia (1948).
Testo di Vittoria Brunetti
|
 |
"DONNA IMPAZZITA SOTTO IL BOMBARDAMENTO" - (1949)
La notte
si illumina, una donna fugge smarrita tra i bagliori rossi del
bombardamento, cercando di proteggersi con istintivi gesti delle braccia. Il
suo viso, probabilmente nelle fattezze di Rosina, moglie di Tozzi, è
costruito con poche rapide pennellate e si staglia contro uno sfondo scuro.
Colori intensi e segni corposi tracciano la figura che si disgrega nella
forma.
L’inedito espressionismo del dipinto segna un profondo mutamento nel
percorso pittorico dell’artista nell’immediato dopoguerra. Il vuoto
interiore provocato dagli eventi bellici e aggravato dal dolore per la
perdita di alcuni familiari è anche evidente in altre opere dello stesso
periodo, quali Macerie e Subiaco distrutta,
dipinti che raccontano la devastazione e la rovina della sua terra natale.
L’opera trova inoltre contatti con la serie Fantasie di Mario Mafai, esposta
a Roma nel 1944 nella mostra Arte contro la barbarie. Si tratta di quadri di
piccolo formato con figure contorte di forte carica espressionistica che
denunciano gli orrori e i soprusi della guerra: le rapide pennellate corpose
e le tinte scure accomunano le opere dei due artisti.
Tuttavia, il lavoro di Tozzi rivela un’adesione diversa, più intima e
vissuta, lontana dai toni grotteschi e satirici delle invenzioni di Mafai.
Il dipinto è presentato alla prima personale di Tozzi del 1953 e poi
riesposto in altre occasioni. Viene notato per la sua forza espressiva di
grande impatto psicologico e l’efficacia con la quale riesce a comunicare il
dolore e il dramma dell’umanità ferita. Ottiene l’attenzione della critica
contemporanea che lo descrive come «terrorizzante per la potenza realistica
e per lo stato d'animo, imprigionato in poche pennellate di fuoco […].
L'irruenza cromatica non ha limiti e il potenziale dinamico dell'immagine
agisce prepotentemente sul nostro sistema nervoso».
Testo di Sofia Ekman
|
 |
"RAGAZZA CON CAGNOLINO DI STOFFA" - (1949)
Protagonista di questo ritratto è una giovane, Maria Teresa, che all'epoca
del dipinto lavorava in casa Tozzi come domestica; la ragazza è seduta e
tiene tra le mani un piccolo pupazzo rosso di stoffa. Un giorno il pittore,
colto da un’ispirazione improvvisa, le chiese di posare; nacque, nel giro di
mezzora, questo quadro, che nella posa e nell'espressione della ragazza ha
il carattere di un’istantanea.
La figura prende vita nel colore, nei tocchi rapidi e pastosi che
definiscono la chioma e il viso, ma anche nelle zone più ampie dell’abito e
dello sfondo. Quest’ultimo, in particolare, non costituisce uno spazio reale
e neppure un fondale neutro che metta in risalto la figura: è parte
integrante, invece, dello stesso trionfo di colori e di luci. Se l’incarnato
è reso con un certo naturalismo, le pennellate di viola e verde che
definiscono le ombre del volto, insieme al bruno violaceo tinto di
arancione, bianco e verde dei capelli, ricordano piuttosto quella che
Colonna definì «cromia fauvistica» e che più in generale mostra, in quest’opera
di carattere estemporaneo, una ricerca sperimentale e personale di Tozzi in
chiave espressionista.
Testo di Valentina Mariani
|
 |
"L'ANGELO AL SEPOLCRO2 - (1953)
Realizzata durante gli anni di profonda riflessione sulle tematiche
religiose e di intima vicinanza con Don Igino Roscetti, parroco della
basilica di Sant’Andrea a Subiaco, la tela esamina con efficacia il motivo
della preghiera. La figura angelica, cui prestò le fattezze la consorte, siede sola, con le mani giunte di fronte al
petto, alla destra di un sepolcro appena definito. Le rapide pennellate
gialle e aranciate che gettano una fioca ombra sul volto e sulle ali
dell’angelo sembrano costituire l’unica astratta fonte di luce dello spazio,
completamente immerso nel blu della notte.
Abbandonato qualsiasi intento di definizione disegnativa, Tozzi affida la
costruzione della scena al colore denso, corposo ed espressivo: i volumi
delle braccia e delle mani giunte, punto nevralgico della rappresentazione,
prendono corpo grazie alla giustapposizione di pennellate vigorose, che
mostrano l’intensità dell’esecuzione.
Testo di Gloria Antoni |
 |
"GIOCATTOLI" - (1954)
"Giocattoli" è un olio su tela del 1954, realizzato da Benedetto Tozzi per
la sua penultima figlia, Gabriella. Su uno sfondo allestito con drappi
colorati, sono posti i protagonisti della scena, quattro giochi tutti legati
alla sfera sensoriale dell'udito: una bambola con tromba, un telefono rosso
e due pupazzi a carica, che reggono piatti musicali. Il 1954 è un anno
prolifico per Tozzi, impegnato in varie campagne di restauro, ma è pure un
periodo di isolamento a Subiaco, dopo il successo della mostra dell'anno
precedente. Giocattoli si colloca in questa pausa di distensione: i colori
chiari e luminosi sono stesi con una pennellata non più espressiva e
materica, ma diluita, che recupera certe istanze della fase tonalista. La
tela rappresenta un momento di riavvicinamento del pittore alla sfera
familiare e intima e costituisce un unicum nella sua produzione. Tozzi si
rivolge ad una tradizione iconografica di successo nei decenni tra le due
guerre, non solo nell'ambito della Scuola Romana con artisti come Guglielmo
Janni e Mario Mafai, nel quale parti della bambola assumono il valore
scenico del manichino di atelier, ma anche nel contesto europeo, con opere
di Picasso e Otto Dix. Ancor più esplicito è il riferimento agli oggetti
inanimati e sospesi del Realismo magico: benché sia lontano da certo
plasticismo e nitidezza di profili, Tozzi fa suo l'assunto del teorico
Massimo Bontempelli per il quale la stanza dei giochi è occasione quotidiana
di fuga dal reale in una dimensione magica, proprio come avviene nei quadri
di soggetto analogo di Felice Casorati, Cagnaccio di San Pietro e Riccardo
Francalancia.
Testo di Patrizia Giamminuti
|
 |
"PAESAGGIO CON
SAN LORENZO DI NOTTE", 1963
L’opera rappresenta un paesaggio montuoso caratterizzato da toni cupi, che
lo indicano come notturno.
L’identificazione, alle pendici del monte rappresentato a sinistra, della
chiesetta di San Lorenzo Martire consente di riconoscere nella veduta la
cosiddetta località Pianello, dove si costituì il primo nucleo abitato della
città di Subiaco, ripresa dallo studio del pittore.
Alla data di esecuzione dell’opera il soggetto era già stato affrontato
dall’artista: nel 1949, ad esempio, ne realizzò una versione caratterizzata
da cromie più tenui e luminose. Tipica dell’ultima produzione di Tozzi è qui
la scelta di tinte scure, ravvivate dalla presenza di decise pennellate di
colore acceso. Anche in questo paesaggio, al profilo dei monti fa da sfondo
un cielo azzurro intenso e, verso valle, larghe pennellate arancioni,
gialle, verdi e rosa animano il dipinto. Come colate laviche, queste
striature segnano i passaggi di piano, schiarendosi nell’avvicinarsi
all’osservatore. I forti contrasti cromatici descritti hanno ormai
stabilmente sostituito il tonalismo che caratterizzava la produzione
giovanile di Tozzi: nella forza del colore si ravvisa una eco della pittura
sanguigna di Scipione, a rivelare l’imperituro legame con la Scuola Romana
del pittore sublacense. Dopo il dramma della guerra e il travagliato rientro
a Subiaco l’artista caricò di forza e violenza quegli stessi paesaggi che un
tempo gli assicuravano serenità. Il colore è dunque impiegato in senso
espressionista, trasfigurando la realtà osservata e generando visioni dense
di contrasti irreali.
Testo di Jessica Planamente |
 |
"FIORI IN
AUTUNNO" - (1966)
Il quadro,
intitolato da un’iscrizione autografa sul retro Fiori in autunno, si
inserisce in un nutrito gruppo di nature morte dipinte da Tozzi tra la metà
degli anni Cinquanta e il 1967. Con il procedere degli anni, la drammaticità
già denunciata dai fiori del 1943 diventa esplicita in una scelta cromatica
che rinuncia alle sfumature e gioca su netti contrasti tra colori puri.
Il drappo rosso è appena distinguibile dallo sfondo, della stessa intensa
tonalità, che contribuisce ad annullare la percezione di uno spazio reale e
contrasta con il verde acceso dei gambi e delle foglie. Contrasto ribadito
dal soggetto: il verde vivido dei gambi stride con il capo chino di alcuni
fiori, ormai prossimi ad appassire, e ricorda i fiori secchi di Mafai, che,
seppure morti, mantengono tutta la loro vitalità nel colore. In modo
analogo, i colori brillanti di mazzi di fiori di campo si stagliano contro
sfondi viola o verdi di altre composizioni coeve, nelle quali si riscontra
un elemento ricorrente: il vaso di cristallo, che con la sua trasparenza
lascia intravedere i gambi e genera riflessi e giochi di luce. Il motivo del
drappo rosso si ripete pressoché identico in Natura morta del 1967, dove,
davanti al vaso di anemoni, è collocato un piatto bianco con della frutta.
L’intensità di questi sfondi, quasi infuocati, oltre a Mafai, ricorda i
fiori di Arturo Tosi, del quale il pittore conservava un catalogo. Le
pennellate vibranti, che rendono i fiori pura energia, suggeriscono come
Tozzi, in questa fase matura, esprima attraverso il colore la propria
inquietudine, che si estrinseca nel rosso rovente, presente in molte nature
morte già a partire dal 1956, ma predominante in quelle degli ultimi anni.
Testo di Valentina Mariani
|
 |
"CROCIFISSIONE" - (1967)
Firmato
e datato, il dipinto è afferente all’ultimo periodo di attività di Benedetto
Tozzi. La tela mostra con evidenza il lato drammatico del rapporto con il
sacro dell’artista, qui enfatizzato anche dalla consapevolezza della
malattia che l’anno seguente lo porterà alla morte. Nello specifico,
confrontando questo dipinto con i soggetti sacri realizzati durante il
decennio precedente, appare evidente come la sua pittura diventi
intrinsecamente drammatica.
Negli anni Sessanta le opere di Tozzi si caratterizzano per una nuova
dialettica tra segno e colore: se in precedenza il «segno» era del tutto
assente in ragione di un trionfo della materia pittorica, in questa tela
esso ottiene un’inedita rilevanza, soprattutto nella silhouette del Cristo.
È un segno morbido, che mostrandosi nella sua essenziale definizione,
richiama esperienze come quella di Fausto Pirandello nelle sue
crocifissioni. Al contrario del pittore romano però, per il quale è il
colore a piegarsi alle ragioni del segno, Tozzi dimostra ancora come la
componente coloristico/materica sia per lui l'aspetto prioritario.
L’enfasi emotiva di Tozzi lascia la sua traccia non solo nella serie di
graffi nella parte destra del dipinto, quasi a voler cancellare l’opera.
Un’operazione di censura, difatti, questa tela l’ha già vissuta proprio nel
momento della realizzazione, in quanto al di sotto di essa appare evidente
la presenza di una prima composizione, probabilmente un paesaggio, sui toni
del verde.
Testo di Vincenzo Stanziola
|
 |
"PIAZZETTA DI PIETRA SPRECATA DI VENERDÌ SANTO"
(1967)
L’opera rappresenta
uno dei più suggestivi e caratteristici scorci di Subiaco, meta obbligata
fin dal XIX secolo di intere generazioni di pittori paesaggisti, italiani e
stranieri. Questa del 1967 è la versione più tarda delle vedute tozziane di
Pietra Sprecata, il cui toponimo – «Prestecata» nella forma dialettale –
ricorda l’antica destinazione del luogo come deposito dei materiali di
costruzione per la Rocca Abbaziale. La piazzetta è immersa nella sospesa e
vibrante penombra serale del Venerdì Santo, rischiarata dal focone e dai
lampioncini delle finestre che ogni rione predispone per illuminare il
passaggio della statua del Cristo morto. Rinunciando alla presentazione
narrativa della cerimonia, come appare ne La processione del Venerdì Santo
dipinta tredici anni prima, Tozzi si affida unicamente alle potenzialità
espressive ed evocative del colore, saturo, che si accende di improvvisi
bagliori fino a trasfigurarsi, lungo i profili degli elementi
architettonici, in pennellate di pura luce. Una luce ormai lontana dal
tonalismo delle opere giovanili ma certamente debitrice delle visioni
crepuscolari di Roma dell’amico Scipione.
L’elemento scenograficamente dominante è costituito dall’edicola sacra.
Danneggiata dai bombardamenti, fu ricostruita da Tozzi nell’aprile del 1954
contestualmente al ripristino in affresco dell’icona mariana al suo interno,
in sostituzione della copia a olio di un originale presunto di Guido Reni,
che fu donato nel 1790 dal sublacense Don Pietro Caroni alla confraternita
dei bergamaschi di Roma. In una lettera al sindaco Alberto Scarpellini del
18 marzo 1954, Tozzi, animato da un profondo senso civico, specificava di
accettare l’incarico «a condizione di occuparmene io solo e personalmente»:
numerosi gli studi architettonici per il tabernacolo e per la cornice
dell’affresco che si conservano nell’archivio di famiglia.
Testo di Gianluca
Petrone
|
 |
"L'INCHINATA" (1968)
L’inchinata può considerarsi il testamento spirituale di Benedetto Tozzi in
quanto sintesi, felicemente riuscita sebbene rimasta incompiuta, della sua
esperienza di vita e di pittore. Fu probabilmente esposta per la prima volta
in occasione della retrospettiva del 1969, dove confluì un numero di opere
maggiore rispetto a quello indicato nel catalogo: il dipinto doveva figurare
significativamente a conclusione del percorso espositivo.
Il rito dell’inchinata è rappresentato nel momento culminante, quando
l’icona sacra del Salvatore, portata in processione dalla cattedrale di
Sant’Andrea, sta per incontrare l’immagine dell’Assunta nella piazza di
Santa Maria della Valle e il popolo, con sincera devozione, implora
misericordia per l’umanità. Dall’alto, la rocca dei Borgia impone il suo
caratteristico profilo al paesaggio, mentre, in basso a destra, un tronco
d’albero secco sembra immerso in una variopinta laguna di colori, che fa da
controcanto a quella altrettanto palpitante che inonda il cielo: «si infuoca
il linguaggio, il contenuto resta umano». L’elemento arboreo costituiva in
origine l’abbozzo di una diversa composizione – forse una veduta delle
sponde dell’Aniene – che fu poi adattato, girando la tela in senso
orizzontale, al nuovo progetto esecutivo, per suggerire l’idea di una
compenetrazione tra il naturale, l’umano e il divino. Su questo spazio si
muovono, verso direzioni opposte, alcune figure di supplici vestiti di manti
rossi, appena abbozzate con rapidi colpi di pennello.
La dominante rossa, che avvolge l’intero paesaggio di un’atmosfera surreale,
e la definizione antinaturalistica delle figure sono il risultato di una
ricerca espressiva personale e autonoma, che volge verso una sperimentazione
astrattizzante del colore. Solo l’incompiutezza della tela e la prematura
morte del pittore impediscono di valutarla come una scelta estetica
consapevole, quasi una maturazione poetica dei presupposti della sua arte,
riassumibili nel binomio forma/colore.
Testo di Gianluca Petrone |